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giovedì 4 giugno 2020

Racconto. Alter ego. L’altro me stesso e un po’ di me stesso.


L’ippopotamo è un grosso mammifero erbivoro africano.
Nonostante l’andatura goffa, la sua corporatura tozza, le zampe corte e la grande testa prominente, questo animale è piuttosto agile e se necessario molto aggressivo.
La sua particolarità è il fondamentale apporto che dà al suo habitat. Spargendo il suo sterco concima le praterie e il fondo dei fiumi, nei quali di conseguenza”.
Sono finito! Poltrisco su questo divano ad ascoltare l’influenza che ha nella natura la merda di un grasso animale.
Va bene così, ormai mi sto anche affezionando alla voce di National Geographic, è femminile, a tratti anche amorevole ma sì, a questo punto dovrei anche darle un nome, la sento amica, la chiamo Emma. E’ la voce di Emma Bovary, sognatrice e provocante. I suoi sogni sono scritti su pagine ingiallite abbandonate sul mio comò, non voglio leggere le ultime rimaste, so cosa farai Emma, ma l’inchiostro ferisce più di uno sbiadito ricordo di arsenico e morte.
Emma si sta addentrando troppo nell’argomento sterco, cambio canale
Falsi sorrisi, burattini che vomitano populismo, gregge di pecore. Emma oggi mi hai deluso e tutto il resto non lo tollero. Spengo.
Devo mangiare. Una scatoletta di tonno aperta sul tavolo, credo vi stia nascendo un ecosistema protetto da una fine patina d’olio, meglio non indagare.
Devo bere, nel ghiaccio deserto del frigo nemmeno una mezza lattina di Guinness.
Esco.
A 20 anni ho scoperto il funzionamento del metabolismo dell’etanolo.
Primo anno di medicina, uscito dalla biblioteca giuro ai miei colleghi che non avrei più toccato una birra; per coerenza non ne ho più toccata una fino alla fine dei miei studi. “Fine” non è proprio il termine corretto, è più adatto interruzione. Poi la coerenza ha perso di significato, quindi la birra è diventata la mia nuova compagna di vita.
Terzo anno, patologia generale, alla seconda settimana di studio sbattendo la testa contro la scrivania, mi diagnostico un’oxicefalia. Da lì ogni cinquanta pagine una nuova autodiagnosi, l’ipocondria era ormai l’unica guida dei miei pensieri.
Un giorno torno a casa da Maria, sbatto quel maledetto Walter/Israel sul tavolo “Maria ti prego, capiscimi! Devo lasciare tutto”.
Maria la penso spesso, i suoi ricci, il suo seno. Sua madre le aveva insegnato a cogliere tutte le mattine dei gelsomini per metterli nel reggiseno e profumarsi, quando se lo slacciava, i fiori le cadevano dal petto, una cosa magica e sensuale.
Stava spesso via per lavoro. Ogni volta, prima di partire nascondeva i petali dei fiori del giardino tra le pagine dei miei romanzi. Appena ne trovavo uno lo stringevo con forza nel pugno privandolo del suo vivo colore bianco. L’umidità del fiore, la sua ultima traccia di vita, veniva assorbita dai miei palmi. L’anima del fiore di Maria nelle mie mani.
Qualche mese fa l’ho rivista tra la folla del mercato centrale, non era sola, a tenerle la mano c’era un uomo, suo marito. Carriera e matrimonio, forse voleva solo questo e io non l’ho mai capito.
Tra l’altro ho poi scoperto che quell’uomo è un medico.
Chissà se vive ancora nella vecchia casa in campagna? Chissà se quest’uomo si corica dalla stessa parte che occupavo io del letto? Maria diceva sempre che ero il cuore, tendente a sinistra ma abbastanza al centro da stringerla a me quando la vedevo tormentata dagli incubi.
Chissà se fa ancora quei sogni macabri? Forse non li racconta più a nessuno o forse pensa solo ai suoi figli, quelli che lei ha sempre voluto, quelli che io non ho mai voluto.
Certo è sicuro che lui non le suona tutte le sere “vivo per lei”. Tre anni insieme più di 1095 volte strimpellati gli stessi accordi.
Appena uscito di casa vengo travolto dall’odore di merda, Dio santo oggi è una persecuzione! Questa città sembra marcire, sempre meno persone, sempre più gabbiani.
Mi trascino verso il mercato, non ho più un muscolo, solo pelle e ossa. Tutto è più faticoso.
Lasciati gli studi, persa Maria, la mia corporatura mi ha permesso di essere assunto come lift in un hotel di lusso.
La giacca del lift precedente mi stava perfetta, il direttore aveva come principale interesse non dover tirare fuori una lira di più dello stretto necessario, gli era parsa la soluzione migliore trovare un ragazzo con le stesse misure del precedente.
“Deve solo premere un tasto, essere cordiale e non crearmi problemi. Allora, lo accetta il lavoro?”. Ero invisibile per tutti i clienti dell’hotel, il lavoro perfetto per restare nel mio isolamento mentale.
Sono stati anni di rassicurante monotonia, se non per rare eccezioni: sostanziose mance messe in tasca da vecchie signore ammiccanti.
Come promesso non ho mai creato problemi, ma coi nuovi tempi la borghesia è cambiata, anche la clientela più altolocata si degnava di toccare la pulsantiera dell’ascensore; in più la tecnologia andava avanti, il loro gesto era seguito da qualche nota di musica proveniente dall’altoparlante io nemmeno fischiettavo, non servivo più.
Tiro fuori i pochi euro che ho in tasca, prendo le mie birre non mi va di tornare da Emma, continuo a camminare.
Sono di fronte il mare. L’odore del salmastro mi riempie le narici, mi purifica l’anima… almeno il poco che è rimasto di essa.
Chiudo gli occhi. Sono cresciuto col mare, ho 59 anni e ancora lo temo. Si cresce, ma certe paure non puoi strappartele facilmente di dosso. Ancora aspetto che l’acqua si divori la città, forse non era solo un incubo, prima o poi si riprenderà la spiaggia che ci ha concesso. E se davvero è solo un incubo, l’unica certezza che ho è che non mi interessa più, non perderei nulla e nessuno.
Un tempo mi sedevo sulla sabbia fresca e gli occhi della mente guardavano innalzarsi il mio castello. Aspettative, sogni, illusioni. Ora la sabbia è sempre quella, è sempre fresca, però gli occhi della mente guardano indietro, del castello sono rimaste solo le macerie, le osservo, le scruto, niente di niente, un ammasso di rovine.
Per ogni mattone frantumato che scovo, sento calde gocce scendere sulle mie guance. Ho il viso lustro di lacrime.
Oggi è il mio compleanno, Emma è nello schermo e mi aspetta a casa.
Mi sono rotto, torno a casa e mi rimetterò in mutande.















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