Era scomparsa così, come uno di quei fiori che si usano come
segna libro e che appassiti vengono divorati dal fiume di parole nulle, gettate
lì chissà da quale poeta lontano millenni dal suo tempo. Come nessuno aveva mai
immaginato, se n’era andata, inghiottita ora in quella medaglietta fredda sul
petto della madre, caldo d’amore e di lacrime amare.
In quella goccia di metallo, era rinchiusa lei, i suoi lineamenti, il suo volto, le sue lacrime, le sue paure, le sue speranze. C’era lei, la sua Stefania? Cioè, quale Stefania? Quella che da piccolina non andava a dormire se lei non andava a darle il bacio della buona notte, che voleva dormire con la luce accesa, che stringeva Bobo, un orsacchiotto senza un braccio, che si era fratturata la mano la prima volta che aveva provato ad andare in bici, che odiava mangiare la carne e volentieri si sarebbe abbuffata di verdure, che si era impuntata di voler fare la boxe e non la ginnastica ritmica come le sue compagne di classe, che ad otto anni, non aveva espresso il desiderio di fare la dottoressa, la mamma, la maestra ma di fare il pilota, per volare lontano, e sfiorare l’eternità. Ieri, era proprio andata così; aveva sfiorato l’eternità; era volata via, lontana dal gomitolo delle vite umane; era diventata un filo indipendente e ballava, vagava, vorticava, negli abissi del suo io, lontana come non mai, con tale impeto che il filo pian piano si è indebolito, si è reciso, e lei è stata scaraventata a terra, in una fossa un metro e settanta per un metro accanto ad una croce ignota, ed ad una signora di settanta anni, con la tomba circondata da mille fiori finti.
Ieri una ragazza di venti due anni era stata trovata con un ago nel braccio sinistro, nel bagno della stazione, morta.
Era quella la sua Stefania?
Una che comunemente, con disprezzo definiscono una tossica? Una di quelle che “si buca”; che è disposta a tutto pur di procurarsi il “pane quotidiano”, una qualsiasi dose, una qualsiasi sostanza, per riempirsi il braccio di lividi, e sognare di esser diventata un pilota di successo.
Perché Stefania era stato anche questo; lei ed i suoi interminabili silenzi, i suoi rientri a casa di giorno, le sue giornate trascorse a letto a dormire per poi svegliarsi e nascondersi tra le foglie degli alberi dei giardinetti pubblici a fare cosa? Come non aveva fatto a capire cosa faceva quella ragazza, che tornava a casa sempre apatica, con gli occhi spenti e poi ravvivati a tratti da una scintilla, che non era gioia; era rabbia per una vita che non voleva finisse in quelle catene che inchiodavano l’anima e dalle quali nessuno voleva liberarla, nemmeno sé stessa. E gli anni erano trascorsi, tra litigi inspiegabili e lunghe tregue nelle quali la verità lentamente trapelava e si trasformava da normali incomprensioni tra genitori e figli adolescenti, ad un mostro mitologico dalle mille teste crudeli ed affamate, ad una madre che non riconosce più la figlia, alla figlia che si sente orfana, ad una donna che non vuole riconoscere che “mia figlia è una drogata”. Perché non aveva mai avuto il coraggio di raccontarlo al mondo, ma soprattutto a raccontarlo a sé stessa, che quel fiore si stava lentamente consumando sotto i colpi subdoli, invisibili di una realtà che con il suo odore di morte e depressione, lo stava stordendo, per appropriarsi del suo ancestrale profumo di giovane donna? Perchè? Perchè a volte non far niente equivale a fare molto male; e solo ora che quel corpo era diventato gelido e freddo come la medaglietta sul suo petto, aveva capito. Solo ora con quel diario tra le mani, venuto chissà da quale cassetto chiuso a chiave nella camera di sua figlia aveva capito, che quel ago nel suo braccio, non si trovava lì per puro masochismo; ma aveva motivo di esserci e quel motivo era scritto, sussurrato in punta di piedi, nelle piaghe del cuore di una adolescente sballottata tra la casa di sua madre e di suo padre, il cui matrimonio non era mai decollato, a cui nessuno aveva mai insegnato cosa volesse significare essere felici in una società in cui ciò che importa è essere ricchi e belli in cui la scuola non è un luogo dove rendersi liberi attraverso la conoscenza, ma un luogo che impone nuovi schemi, nuovi modelli, nuove regole, senza il rispetto dei quali non vali niente…E nessuno pensa alla poesia, all’arte, alla musica, alla loro fragilità, alla loro forza, ad un’anima troppo sensibile per sopportare un mondo in cui bisogna essere competitivi, perfetti oltre la perfezione immaginabile ed in cui la parola amore è bandita del tutto…
In quella goccia di metallo, era rinchiusa lei, i suoi lineamenti, il suo volto, le sue lacrime, le sue paure, le sue speranze. C’era lei, la sua Stefania? Cioè, quale Stefania? Quella che da piccolina non andava a dormire se lei non andava a darle il bacio della buona notte, che voleva dormire con la luce accesa, che stringeva Bobo, un orsacchiotto senza un braccio, che si era fratturata la mano la prima volta che aveva provato ad andare in bici, che odiava mangiare la carne e volentieri si sarebbe abbuffata di verdure, che si era impuntata di voler fare la boxe e non la ginnastica ritmica come le sue compagne di classe, che ad otto anni, non aveva espresso il desiderio di fare la dottoressa, la mamma, la maestra ma di fare il pilota, per volare lontano, e sfiorare l’eternità. Ieri, era proprio andata così; aveva sfiorato l’eternità; era volata via, lontana dal gomitolo delle vite umane; era diventata un filo indipendente e ballava, vagava, vorticava, negli abissi del suo io, lontana come non mai, con tale impeto che il filo pian piano si è indebolito, si è reciso, e lei è stata scaraventata a terra, in una fossa un metro e settanta per un metro accanto ad una croce ignota, ed ad una signora di settanta anni, con la tomba circondata da mille fiori finti.
Ieri una ragazza di venti due anni era stata trovata con un ago nel braccio sinistro, nel bagno della stazione, morta.
Era quella la sua Stefania?
Una che comunemente, con disprezzo definiscono una tossica? Una di quelle che “si buca”; che è disposta a tutto pur di procurarsi il “pane quotidiano”, una qualsiasi dose, una qualsiasi sostanza, per riempirsi il braccio di lividi, e sognare di esser diventata un pilota di successo.
Perché Stefania era stato anche questo; lei ed i suoi interminabili silenzi, i suoi rientri a casa di giorno, le sue giornate trascorse a letto a dormire per poi svegliarsi e nascondersi tra le foglie degli alberi dei giardinetti pubblici a fare cosa? Come non aveva fatto a capire cosa faceva quella ragazza, che tornava a casa sempre apatica, con gli occhi spenti e poi ravvivati a tratti da una scintilla, che non era gioia; era rabbia per una vita che non voleva finisse in quelle catene che inchiodavano l’anima e dalle quali nessuno voleva liberarla, nemmeno sé stessa. E gli anni erano trascorsi, tra litigi inspiegabili e lunghe tregue nelle quali la verità lentamente trapelava e si trasformava da normali incomprensioni tra genitori e figli adolescenti, ad un mostro mitologico dalle mille teste crudeli ed affamate, ad una madre che non riconosce più la figlia, alla figlia che si sente orfana, ad una donna che non vuole riconoscere che “mia figlia è una drogata”. Perché non aveva mai avuto il coraggio di raccontarlo al mondo, ma soprattutto a raccontarlo a sé stessa, che quel fiore si stava lentamente consumando sotto i colpi subdoli, invisibili di una realtà che con il suo odore di morte e depressione, lo stava stordendo, per appropriarsi del suo ancestrale profumo di giovane donna? Perchè? Perchè a volte non far niente equivale a fare molto male; e solo ora che quel corpo era diventato gelido e freddo come la medaglietta sul suo petto, aveva capito. Solo ora con quel diario tra le mani, venuto chissà da quale cassetto chiuso a chiave nella camera di sua figlia aveva capito, che quel ago nel suo braccio, non si trovava lì per puro masochismo; ma aveva motivo di esserci e quel motivo era scritto, sussurrato in punta di piedi, nelle piaghe del cuore di una adolescente sballottata tra la casa di sua madre e di suo padre, il cui matrimonio non era mai decollato, a cui nessuno aveva mai insegnato cosa volesse significare essere felici in una società in cui ciò che importa è essere ricchi e belli in cui la scuola non è un luogo dove rendersi liberi attraverso la conoscenza, ma un luogo che impone nuovi schemi, nuovi modelli, nuove regole, senza il rispetto dei quali non vali niente…E nessuno pensa alla poesia, all’arte, alla musica, alla loro fragilità, alla loro forza, ad un’anima troppo sensibile per sopportare un mondo in cui bisogna essere competitivi, perfetti oltre la perfezione immaginabile ed in cui la parola amore è bandita del tutto…
La sigaretta si stava spegnendo sul posacenere; il sole stava
tramontando; anche oggi aveva reso visibile l’esistenza di ogni creatura agli
occhi di un dio timido che spiava dalla fessura di chissà quale porta per
l’universo. La lettura dell’anima di sua figlia trascritta su quelle pagine di
diario, che chissà quante volte aveva strattonato, gettato qua e là , nascosto
e sul quale aveva pianto, riso, mangiato, l’aveva rapita perché le stava
regalando un’immagine diversa, un’altra Stefania, che nessuno aveva conosciuto,
forse neanche se stessa…Erano scoccate le quattro del pomeriggio; da quattro
ore lei era diventato un tutto uno con la terra, ma nel cuore della madre, di
quella signora che accanto alla finestra alla luce del sole, provava a
decifrare la grafia della figlia, con le mani tra i capelli, era nata una nuova
Stefania, e la nascita di questa nuova, la sconvolgeva a tal punto che non
riusciva a lasciare spazio alle lacrime d’obbligo: la faceva sentire di nuovo
madre di una figlia che non era quello che la gente pensava, che non era quello
che lei stessa pensava di sé; che era uno scrigno che racchiudeva tutte le
meraviglie del mondo, ed un incommensurabile bisogno d’amore. E lei era la
custode di tale patrimonio dell’umanità; tanto bello e puro da non essere meritato
da nessuna creatura terrena. Allora aprì la finestra; prese la sigaretta dal
posacenere ed inizio a bruciare le pagine del diario. Perchè sei qui Stefania,
tra le pagine a quadretti di questo diario? Vai, vai, raggiungi il tuo corpo,
anima bella! E non tornare qui, non tornarci mai più! Gridò al cielo, perché
non trovava giusto che la vera Stefania continuasse ad essere materia di questo
mondo; nessuno doveva conoscere la sua vera figlia, doveva rimanere un
privilegio solo per lei…e mentre strappava le pagine e le bruciava, incominciò
a piangere a dirotto; ”È per via del fumo se piango, perché non c’è motivo di
piangere per Stefania…”-disse ad alcuni passanti che attoniti si erano voltati
a guardarla.
Questi si allontanarono senza dire una parola; ma il loro pensiero era palese: ”Si doveva per forza uscir di senno ad aver una figlia come quella!”
Questi si allontanarono senza dire una parola; ma il loro pensiero era palese: ”Si doveva per forza uscir di senno ad aver una figlia come quella!”
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