Ciao Luigi, ben svegliato, oggi è il giorno del tuo
quarantacinquesimo compleanno, allegria allora! Chissà quante telefonate
d’auguri e regali riceverai. Baci, abbracci. Paolo con l’espressione di presa
in giro ti dirà: “Papi come sei vecchio” e si farà una bella sghignazzata. Rita
ricorderà gli anni passati insieme, il primo bacio dato di nascosto dietro una
siepe, il “ti voglio bene”, lo scambio degli anelli, la maternità vissuta
insieme, la mia entrata entusiasta in sala parto e subito l’uscita, sconvolto
da urla, sangue, infermieri frenetici, che figuraccia. Davanti al documento del
compromesso per la nuova casa, dal notaio per il rogito “avremo fatto bene i
conti”. Tirandoti le orecchie ti dirà “quarantacinc an, un bell’orghen”.
Mi rendi felice quando mi racconti queste cose, mi rallegrano,
incomincio bene la giornata. Voglio che sia un compleanno particolare, “nuovo”.
Per la prima volta voglio ricordare in questo giorno una figura importante
della mia vita e di cui mi dimentico spesso, la mia mamma…
Forse te l’ho detto poche volte, ma ti voglio tanto bene, ti
ringrazio per il dono della vita che tu e papà mi avete donato.
Mi ricordo la dolcezza che avevi nei miei confronti quando da
piccolo ero ammalato e si leggeva sui tuoi occhi spalancati la paura che
potessi avere una malattia grave, (eri apprensiva).
Sei una persona meravigliosa, hai curato la nonna malata con
spirito di servizio e d’amore che mi è sempre stato d’esempio nella vita.
Nella malattia di papà ho capito che c’era fra voi, quell’unione
che forse non era appariscente ma profonda, le sei stata vicino, non l’hai
lasciato un minuto, soffrivate e giovate insieme, cercavate sempre uno
spiraglio d’ottimismo. Per tè “Papa Mario non è mai morto”, m’immagino che
quando vai sulla sua tomba vi parlate e gli chiedi: “daga una man alla Lella e
al Luigi”.
Mi ritorna in mente la canzone che sempre mi cantavi “forza
Luigi forza Luigi che ghe il tranvai che ghe il tranvai, lui con un piede nel
binario sta in mezzo ai guai…” Quando mi facevo una distorsione, e avevo
bisogno di “punture” ecco che chiamavi “la sciura Nilde”, una tuttofare con le
nostre ossa e il nostro deretano. Che male.
Ti ricordi quando piccolo dal balcone di casa buttavo le rane
vive in giardino “purcun”. Quando sono stato eliminato al primo turno
dell’usignolo d’oro “Sanremo in piccolo”, io arrabbiato mentre papà prendendomi
in giro mi cantava la canzone “Bisogna saper perdere, bisogna saper perdere”.
Le risa ad un ultimo dell’anno quando Francesco uscendo da casa
nostra dopo aver passato una bella serata con la moglie Rina, vide il vento
portagli via il cappello, e mentre si avvicinava per acchiapparlo gli sfuggiva.
Papà cercava di aiutarlo; il cappello andò sotto un’automobile ferma e tutti in
ginocchio per prenderlo, che impresa.
Mi ricordo il nome delle tue amiche: “La sciura Rina, la sciura
Anna, Lina con il suo Peppino, “il mio Peppino”.
Rivedo il nostro quartiere il “Veneto” e le sue figure
emblematiche. La maestra Fossati che faceva il doposcuola a quasi tutti i
ragazzi del quartiere.
Il Penatun, il suo mini Market e il bar dove si andava a
fare l’abbonamento settimanale del treno.
“Bisogna sta atenti se no te frega anche al des franc”.
Il Summariva dove si andava a fare la spesa con il famoso
“libretto” dove veniva segnato l’importo d’ogni compera e alla fine del mese si
pagava. Si andava a comprare il Trinciato per il nonno.
Il sciur Tino il Macellaio, l’Agnese con la sua tintoria,
Finocchiaro e suo cognato Nicola i ciabattini.
Il Susan e la sciura Lidia con il negozio “Compro oggi e pago
domani”.
La sciura Fumanelli concorrente per il deretano della sciura
Nilde.
Il prestigio di avere nel nostro paesetto fabbriche prestigiose.
La Tudor, fabbrica d’accumulatori che mandava una puzza in tutto
il quartiere. “L’è mort al Siur Verga”.
La Galbani, “al me fiò al laura in Sede e fa l’impiegà”
L’Invernizzi. Dove avevano lavorato la Nonna di Rita, Centa e la
zia Pina.
Quando ne combinavo qualcuna delle mie, per spaventarmi mi
parlavi del “Carchen”: un povero diavolo tutto malconcio che viveva di stenti e
metteva paura a noi bambini per quel suo essere sempre sporco, la barba lunga,
curvo. “Fa il brau se no ciami il carchen” E quando ero polemico più del
solito: “Piantala lì e mucala” oppure “sinsighetta”.
Il Scarseggia che portava i giornali in bicicletta. “Sembra che
gan taglià via i bal nella guerra di Libia”.
I miei amici, il Verunes, Il Franco Caldi, Il Lucio, Il Sergio
che balbettava e l’Achille “quel della terrazza”.
La Marisa, L’Ederina, la Mariangela, la Lucia e la Pasin,
l’Emilio Strada che si travestiva da fantasma Belfagor e spaventava le ragazze
con la nostra complicità. Si potrebbe ricordarne di cose.
Non me lo hai mai detto, ma chissà quanta commozione e quanti
ricordi il giorno del mio matrimonio, hai trattenuto benissimo le lacrime ma
nel tuo cuore una piccola ferita è rimasta: “Al me Luigi”.
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