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giovedì 4 giugno 2020

Racconto. Crisi dello scrittore.


Un ricordo che diventava ossessione, un passato che vinceva il presente e inghiottiva con le sue sconfinate ombre ogni ipotetico istante del futuro.
Fedor non riusciva a liberarsi del suo dramma e a scrivere quel racconto che avrebbe pagato tutti i suoi stramaledetti debiti. Il direttore diventava sempre più pressante, la scadenza era sempre più vicina e non solo non c’era una storia. Non c’era nemmeno un personaggio, non c’era un luogo, ma solo un’idea, un’idea che non gli si era ancora mostrata, di cui non capiva né colore né forma. Ma c’era. Sentiva dentro di sé che anche questa volta non avrebbe lasciato vuoto quel palcoscenico che lo aspettava ma tutte le volte che tentava di trovare un indizio in più, ecco che si vedeva su quella ghigliottina, ad aspettare una morte che poi non era mai arrivata. Sulla sua pelle sentiva tutte le violenti emozioni subite, in quella “casa dei morti” in cui aveva vissuto.
James amava Dostoevskij, lo divorava, immaginava questa scena leggendo il suo epistolario ed era quasi fiero di essersi trovato spesso nella stessa situazione, sommerso da un passato che spietatamente imprigionava la sua creatività. Da lettore ingenuo e sognatore com’era, però, odiava rendersi conto che un libro non nasce di getto, non nasce per caso. Spesso è commissionato. Spesso è riletto, riscritto, rielaborato per anni. Mentre vorresti che fosse spiccato dalla punta di una penna in brevissimi istanti, come in brevissimi istanti tu riesci a leggerlo e ad ubriacarti d’emozioni. Ci pensava spesso James alla scrittura. Era la sua passione. Era la sua speranza. Era la sua arma contro ogni sgambetto della vita e dell’umanità. Era quello che “gli riusciva meglio”, non perché pensava di scrivere bene, ma perché scrivendo si sentiva bene. Era l’unico momento in cui riusciva ad essere veramente se stesso. E quando pensava al suo futuro, l’unica certezza era che avrebbe scritto. E che avrebbe letto.
La scrittura non doveva, non poteva essere un mestiere. Odiava quelle americanate scritte solo per fare soldi, detestava scrittori diventati famosi per un capolavoro che poi pubblicavano schifezze solo per continuare a vendere; continuava ad amare Fedor che, pur su commissione, pur per guadagno, mai si era dimenticato che scrivere significa “accendere le micce delle rivoluzioni nell’intimità del pensiero”. Nel pensiero di chi legge. Nel pensiero di chi piange, soffre, gioisce di chi in quelle pagine vive una seconda vita. Per questo un libro non può essere scontato, perché la vita non lo è mai. Per questo un racconto per “toccarti le corde” deve essere un po’ amaro, perché la vita non è mai solo dolce. Per questo un libro vorresti che finisse a lieto fine o con un colpo di scena, perché speri che la tua vita si concluda bene o comunque che fino all’ultimo minuto tu abbia la possibilità di sperare. Pensando a Fedor James si rendeva conto che spesso il problema dello scrittore è solo uno: istintivamente racconta se stesso e istintivamente ha voglia di censurarsi, perché ha il timore che non interessi a nessuno, perché non ha voglia che qualcuno legga, quando le sue emozioni non riesce a mascherarle. Come Fedor non aveva ancora capito che l’idea era quel passato che lo opprimeva, James si ostinava a reprimere il disprezzo, il disprezzo per le “autorità” e le istituzioni, o meglio per il marcio che c’era nelle autorità e nelle istituzioni si ostinava a non parlare dell’incomunicabilità tra lui e i suoi coetanei e in quel momento non gli andava di scrivere su quello che era successo. L’ennesimo episodio di violenza, di bullismo. Tutta l’opinione pubblica schierata contro i giovani. I soliti opinionisti e psicologi che non hanno niente di meglio da fare che andare nei programmi televisivi in cui si vota con l’sms al 48448 che inveiscono contro le famiglie, contro gli insegnanti, contro gli adulti.
Afferra tante volte la penna e poi la mette da parte. Cerca di ascoltare un po’ di musica, ma non ci riesce. Deve scrivere. Deve. Inizia.

<<Anche quella mattina fu Lui a svegliarmi, con il suo tocco insistente e spaventosamente violento.
Il sole non era ancora sorto: il mio uomo non poteva rischiare che fossero i suoi raggi a svegliarmi. Voleva essere padrone assoluto della mia vita, controllarne ogni mio gesto. Volevo opporgli resistenza, ma non ci riuscivo. Speravo sempre che quello fosse l’ultimo sogno spezzato, l’ultima lacrima versata per un risveglio non voluto. Speravo sempre che fosse arrivato anche per me il momento di cadere giù, come tutte le parti più importanti della mia vita: stremata dalla violenza, calpestata da un piede veloce che non si ferma nemmeno a guardarmi. Ma la mia giovane forza mi teneva aggrappata alla mia vita appassita. Quella mattina poi era più strano del solito, il mio uomo. Mi parlava di una sorpresa. Mi proponeva un viaggio. Mi chiedevo cosa nascondesse. Non volevo partire con lui, ma naturalmente questo non aveva alcuna importanza. Mi trascinò con la sua solita irruenza. Non seppi liberarmi dalla sua stretta. Persi i sensi.
Mi ritrovai in una piazza piena di gente. Vedevo solo chiome e colori, sentivo il suono di una chitarra.
Io avevo voglia di morire e venivo trascinata ad un concerto! Ecco come mi capiva il mio uomo! Mi spinse tra la gente e arrivata vicino al palco  vidi un omino senza braccia che suonava la chitarra. Rimasi senza parole. Rimasi ad ascoltarlo senza fiato.
Poi lo vidi firmare gli autografi. Poi lo vidi andare via in macchina.
Aveva trasformato le sue catene in un  fiocco pronto per chiunque volesse scioglierlo. Io invece vivevo da morta la vita per paura di morire. Il mio uomo non era mai stato violento.
Vento voleva solo con le sue strette richiamarmi alla vita.
Vento voleva solo risvegliarmi dalla mia apatia.
Vento voleva solo che non mi imprigionassi nella catena del dolore.
Mai ero stata così felice di averlo accanto. Mai ero stata così felice di essere.
Essere una foglia! >>.
E’ così che lascio la mia vita.
Dedico a te queste parole, perché se sto per premere il grilletto è solo perché nella mia vita Vento non l’ho mai incontrato.
Le dedico a te, mamma. Che hai sempre cercato lacrime da asciugare e non trovandole mi hai sempre detto che sono forte.
Le dedico a te, papà. Che hai risposto ai miei silenzi con altri silenzi.
Le dedico a te, amore. Che mi hai sempre consolato e accontentato, ma mai capito.
Le dedico a voi che avete scritto: <<Ragazza uccide passante per noia>>. Era solo l’ultimo disperato tentativo di trovare qualcuno che mi odiasse, avrei trovato degli occhi che si erano accorti che ero nata. Finalmente, dopo diciotto anni di vita.
Era solo l’ultimo disperato tentativo di reprimere questo istintivo attaccamento alla vita, che disprezzo perché non ne ho ancora capito il senso. Il disperato tentativo di reprimere la voglia di trovarlo.
Nemmeno questa volta ho il coraggio di mettere un punto Chissà quante volte dovrei riscrivere queste parole se io strappassi adesso questo foglio.
Ti prego mamma
Ti prego papà
Ti prego amore
Non costringetemi ad uccidermi.
Io sono qui. Io vivo. Io penso. Io respiro. Non sono una tomba. Non lo sarò se voi non lo vorrete
James posa la penna. Fa un bel respiro ed adesso si sente pronto. Pronto per scrivere il suo racconto. Forse. O forse lo ha già scritto.








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