Seduto sulla
panchina del parco, Quinto sbriciolava la sua brioche per la gioia dei
passerotti che dall’albero scendevano in picchiata sul selciato. Ogni tanto il
suo corpo si ricordava dell’età accumulata e lo costringeva a sedersi, per
riposare un poco. La scuola era poco distante ed i suoi nipoti uscivano di lì a
breve. Sua figlia, sul marciapiede dall’altro lato della strada, li stava
aspettando. Quinto guardò ammirato la giovane donna, sentendosi molto fiero di
essere suo padre. Quella figlia era un dono del Signore, un angelo, al quale
lui, ormai alla fine dei suoi giorni, aveva donato il cuore. Per lei, Quinto
aveva trovato la volontà ed il coraggio di lottare, benché stanco, stremato dai
tanti dolori di cui era costellata la sua lunga vita: le privazioni della
guerra, i sacrifici fatti per costruirsi un futuro, la pena per il figlio
Gianluigi, che dopo il divorzio, sprofondato in una tormentata crisi
esistenziale, era tornato a vivere in famiglia e il dolore straziante per la
sua malattia, che gli aveva rubato la voglia di vivere e poi, a distanza di
pochi anni, aveva perduto anche Gina, sua moglie, la compagna di tutta una
vita. Nulla restava dei suoi affetti e Quinto era solito rabbuiarsi, ricordando
quei giorni, quando la solitudine era così pesante che solo il pensiero della
propria prossima morte li rendeva sopportabili. Sua nipote Maria Pia, figlia
del fratello di Gina, uno dei pochi parenti rimasti, lo convinse a cercare una
collaboratrice domestica, una badante insomma, che lo avrebbe sollevato dalle
faccende alle quali non poteva più provvedere da solo. Era scettico Quinto, al
pensiero di prendere in casa una sconosciuta e ricordava di non essere andato
molto per il sottile, durante i colloqui, fino a quando non si era presentata
lei. Lei si chiamava Miriam ed era fuggita da un paese centro-africano, dove
una guerra senza senso e senza fine l’aveva lasciata vedova, senza mezzi, senza
speranze e con due figli da far sopravvivere, da proteggere; lei era partita,
armata solo del proprio coraggio, in cerca di dignità, lasciando i figli alle
cure di un gruppo missionario, nell’attesa di poterli riavere con sé. Non aveva
esperienza come badante, disse, ma era piena di buona volontà. Quinto che aveva
ascoltato in silenzio il racconto di Miriam, se ne uscì con un laconico
assenso: quella stessa sera, Miriam prese servizio. Da quel giorno erano
passati oramai cinque anni e nel periodo trascorso insieme era successo di
tutto, un po’ come succede in tutte le famiglie. Miriam si occupava di lui in
un modo che andava oltre il semplice rapporto lavorativo e ricambiava il
crescente attaccamento di Quinto, confidandosi con lui; leggevano insieme le
lettere spedite dei ragazzi e insieme si facevano coraggio, se le notizie
tardavano ad arrivare. Quinto aveva scomodato tutte le sue conoscenze per
aiutarla con le pratiche burocratiche, aveva anche acquistato un computer e un
telefono cellulare, per accorciare le distanze con quel suo paese lontano e lei
aveva voluto rimborsarglieli a tutti i costi, accettando lavoretti extra, che
faceva la sera, mentre insieme guardavano la televisione e fu proprio durante
uno dei loro dopocena che Quinto buttò lì un discorso strano, che gli frullava
in mente già da un po’: adozione. Miriam lo guardò basita, poi si sedette a
terra sul tappeto e posato il capo sulle sue ginocchia, prese a piangere
silenziosamente, mentre Quinto, con gli occhi lucidi, le carezzava i corti
riccioli neri. Non fu facile rendere concreta l’idea ma la tenacia di Quinto
vinse anche questa sfida. Ricordava bene la tensione delle ore in tribunale ma
a ripensarci ora, sogghignava; n’era valsa la pena. Il suono della campanella
della scuola interruppe i suoi pensieri e lui sollevò gli occhi e spalancò le
braccia ad accogliere i suoi bellissimi nipoti, avvolgendo sua figlia in un
amorevole sorriso.
Nessun commento:
Posta un commento