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giovedì 4 giugno 2020

Racconto. Il coraggio di amare.


Seduto sulla panchina del parco, Quinto sbriciolava la sua brioche per la gioia dei passerotti che dall’albero scendevano in picchiata sul selciato. Ogni tanto il suo corpo si ricordava dell’età accumulata e lo costringeva a sedersi, per riposare un poco. La scuola era poco distante ed i suoi nipoti uscivano di lì a breve. Sua figlia, sul marciapiede dall’altro lato della strada, li stava aspettando. Quinto guardò ammirato la giovane donna, sentendosi molto fiero di essere suo padre. Quella figlia era un dono del Signore, un angelo, al quale lui, ormai alla fine dei suoi giorni, aveva donato il cuore. Per lei, Quinto aveva trovato la volontà ed il coraggio di lottare, benché stanco, stremato dai tanti dolori di cui era costellata la sua lunga vita: le privazioni della guerra, i sacrifici fatti per costruirsi un futuro, la pena per il figlio Gianluigi, che dopo il divorzio, sprofondato in una tormentata crisi esistenziale, era tornato a vivere in famiglia e il dolore straziante per la sua malattia, che gli aveva rubato la voglia di vivere e poi, a distanza di pochi anni, aveva perduto anche Gina, sua moglie, la compagna di tutta una vita. Nulla restava dei suoi affetti e Quinto era solito rabbuiarsi, ricordando quei giorni, quando la solitudine era così pesante che solo il pensiero della propria prossima morte li rendeva sopportabili. Sua nipote Maria Pia, figlia del fratello di Gina, uno dei pochi parenti rimasti, lo convinse a cercare una collaboratrice domestica, una badante insomma, che lo avrebbe sollevato dalle faccende alle quali non poteva più provvedere da solo. Era scettico Quinto, al pensiero di prendere in casa una sconosciuta e ricordava di non essere andato molto per il sottile, durante i colloqui, fino a quando non si era presentata lei. Lei si chiamava Miriam ed era fuggita da un paese centro-africano, dove una guerra senza senso e senza fine l’aveva lasciata vedova, senza mezzi, senza speranze e con due figli da far sopravvivere, da proteggere; lei era partita, armata solo del proprio coraggio, in cerca di dignità, lasciando i figli alle cure di un gruppo missionario, nell’attesa di poterli riavere con sé. Non aveva esperienza come badante, disse, ma era piena di buona volontà. Quinto che aveva ascoltato in silenzio il racconto di Miriam, se ne uscì con un laconico assenso: quella stessa sera, Miriam prese servizio. Da quel giorno erano passati oramai cinque anni e nel periodo trascorso insieme era successo di tutto, un po’ come succede in tutte le famiglie. Miriam si occupava di lui in un modo che andava oltre il semplice rapporto lavorativo e ricambiava il crescente attaccamento di Quinto, confidandosi con lui; leggevano insieme le lettere spedite dei ragazzi e insieme si facevano coraggio, se le notizie tardavano ad arrivare. Quinto aveva scomodato tutte le sue conoscenze per aiutarla con le pratiche burocratiche, aveva anche acquistato un computer e un telefono cellulare, per accorciare le distanze con quel suo paese lontano e lei aveva voluto rimborsarglieli a tutti i costi, accettando lavoretti extra, che faceva la sera, mentre insieme guardavano la televisione e fu proprio durante uno dei loro dopocena che Quinto buttò lì un discorso strano, che gli frullava in mente già da un po’: adozione. Miriam lo guardò basita, poi si sedette a terra sul tappeto e posato il capo sulle sue ginocchia, prese a piangere silenziosamente, mentre Quinto, con gli occhi lucidi, le carezzava i corti riccioli neri. Non fu facile rendere concreta l’idea ma la tenacia di Quinto vinse anche questa sfida. Ricordava bene la tensione delle ore in tribunale ma a ripensarci ora, sogghignava; n’era valsa la pena. Il suono della campanella della scuola interruppe i suoi pensieri e lui sollevò gli occhi e spalancò le braccia ad accogliere i suoi bellissimi nipoti, avvolgendo sua figlia in un amorevole sorriso.







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