E’ un’aria diversa quella
che si respira uscendo dal casello della Versilia.
La stessa aria che ritrovi sui visi delle signore ingioiellate che in bicicletta percorrono le vie chiuse al traffico del centro, dirette al bar più in della stagione per un aperitivo in prima fila, a controllare chi non fa parte del loro mondo e sfoggiare il loro miglior sguardo di supponenza.
Ci sono almeno trentotto gradi in questa domenica mattina di fine luglio, ma il sudore che cola a rigare i seni è priorità di quelle che pedalano gioiosamente verso il mercato, con il pareo svolazzante sulle gambe cotte dal sole del giorno prima.
Fa caldo, tanto caldo, ed il sole pizzica le spalle arrossate sotto la canotta leggera quando appoggio la bici e la chiudo con il doppio lucchetto; lui è lì seduto sulla panchina decorativa, la palma che cresce al centro del cerchio di marmo proietta una piccola ombra ristoratrice sulla figura magra dagli occhi chiari e acquosi e dall’età indefinibile. Indossa una giacca blu sopra la camicia, i pantaloni lunghi con calze e mocassini, stonando notevolmente coi nudi pezzi di carne che lo sfiorano di sguardi incuranti. Non chiede l’elemosina; imbraccia il suo strumento ed inizia a pizzicarne le corde che diventano melodia.
Gli fisso gli occhi addosso e non mi sposto, mentre il suono mi rapisce. La musica sale ed entra nelle mie orecchie, e mi costringe allo sforzo di ricordare dove ho sentito quel brano che so appartenermi.
Sorrido quando ho la risposta, è il tema di Nino Rota che ha composto per La strada di Fellini.
Ricordo che è nata come musica da pianoforte ma perché ora mi apre il cuore sentendola suonare da un violino?
L’uomo si è accorto del mio rapimento, sono l’unica che si è fermata di fronte a lui, e mi regala un timido sorriso.
Mi pare di essere in una scena di un film, attorno tutto si è immobilizzato e stinto in un bianco e nero, qualcuno ha spento le luci abbaglianti ed è rimasto solo un piccolo faro a illuminare l’uomo ed il suo violino.
Anche i rumori si sono smorzati completamente e non sento il vigile che fischia, l’automobilista che grida ed i bambini urlanti insofferenza dai carrozzini. L’uomo continua a suonare ed io resto drogata ad ascoltarlo, fino a che l’ultima nota muore tra le sue dita e torna vivo e colorato tutto il resto.
Mi regala un altro sorriso chiaro, stavolta più sfacciato, stringendosi la giacca sulle spalle magre ed infilandosi il panama che aveva poggiato sulla custodia al suo fianco nella quale ripone il suo violino lucido.
Non so perché, ma capisco che è felice perché qualcuno lo ha ascoltato, credo fosse l’unico scopo che lo ha portato lì in mezzo, con la sua inadeguatezza, a dare uno spettacolo non richiesto ad un pubblico che non avrebbe mai pagato il biglietto d’ingresso.
Lo so, lo sento, ne sono convinta di questo e maledico, riprendendo la mia strada, questi occhiali che si appannano.
Devo smetterla di fumare per la strada, non è fine, direbbero le signore di bianco lino vestite.
La stessa aria che ritrovi sui visi delle signore ingioiellate che in bicicletta percorrono le vie chiuse al traffico del centro, dirette al bar più in della stagione per un aperitivo in prima fila, a controllare chi non fa parte del loro mondo e sfoggiare il loro miglior sguardo di supponenza.
Ci sono almeno trentotto gradi in questa domenica mattina di fine luglio, ma il sudore che cola a rigare i seni è priorità di quelle che pedalano gioiosamente verso il mercato, con il pareo svolazzante sulle gambe cotte dal sole del giorno prima.
Fa caldo, tanto caldo, ed il sole pizzica le spalle arrossate sotto la canotta leggera quando appoggio la bici e la chiudo con il doppio lucchetto; lui è lì seduto sulla panchina decorativa, la palma che cresce al centro del cerchio di marmo proietta una piccola ombra ristoratrice sulla figura magra dagli occhi chiari e acquosi e dall’età indefinibile. Indossa una giacca blu sopra la camicia, i pantaloni lunghi con calze e mocassini, stonando notevolmente coi nudi pezzi di carne che lo sfiorano di sguardi incuranti. Non chiede l’elemosina; imbraccia il suo strumento ed inizia a pizzicarne le corde che diventano melodia.
Gli fisso gli occhi addosso e non mi sposto, mentre il suono mi rapisce. La musica sale ed entra nelle mie orecchie, e mi costringe allo sforzo di ricordare dove ho sentito quel brano che so appartenermi.
Sorrido quando ho la risposta, è il tema di Nino Rota che ha composto per La strada di Fellini.
Ricordo che è nata come musica da pianoforte ma perché ora mi apre il cuore sentendola suonare da un violino?
L’uomo si è accorto del mio rapimento, sono l’unica che si è fermata di fronte a lui, e mi regala un timido sorriso.
Mi pare di essere in una scena di un film, attorno tutto si è immobilizzato e stinto in un bianco e nero, qualcuno ha spento le luci abbaglianti ed è rimasto solo un piccolo faro a illuminare l’uomo ed il suo violino.
Anche i rumori si sono smorzati completamente e non sento il vigile che fischia, l’automobilista che grida ed i bambini urlanti insofferenza dai carrozzini. L’uomo continua a suonare ed io resto drogata ad ascoltarlo, fino a che l’ultima nota muore tra le sue dita e torna vivo e colorato tutto il resto.
Mi regala un altro sorriso chiaro, stavolta più sfacciato, stringendosi la giacca sulle spalle magre ed infilandosi il panama che aveva poggiato sulla custodia al suo fianco nella quale ripone il suo violino lucido.
Non so perché, ma capisco che è felice perché qualcuno lo ha ascoltato, credo fosse l’unico scopo che lo ha portato lì in mezzo, con la sua inadeguatezza, a dare uno spettacolo non richiesto ad un pubblico che non avrebbe mai pagato il biglietto d’ingresso.
Lo so, lo sento, ne sono convinta di questo e maledico, riprendendo la mia strada, questi occhiali che si appannano.
Devo smetterla di fumare per la strada, non è fine, direbbero le signore di bianco lino vestite.
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