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giovedì 4 giugno 2020

Racconto. Calabroni.


Ad agosto questa città muore.
Non che per il resto dell’anno scoppi di vita, ma si sopporta. Di gente ce n’è.
Se esci per perdere tempo, qualcuno lo trovi. Ma ad agosto. Non sospettavo tanta desolazione.
Le vacanze sono l’inizio della fine per le città. I loro cuori cominciano a battere sempre più piano, fino a rasentare la stasi. Ma non si fermano mai. Rimangono lì, vicini alla morte, sempre più prossimi all’ultimo battito. Poi arriva settembre e tutto torna come prima. Le città alzano la testa dal sudario, si scrollano di dosso il puzzo di malattia, aprono le finestre e guardano di nuovo la vita.
Agosto non passerà mai. Almeno per me è così. Non ho mai vissuto un periodo così lungo di solitudine. Ed è passato appena un giorno. Oggi siamo solo al due, e già mi sembra di non vedere un’anima da anni.
Tutti quelli che conosco sono partititi, andati. Cazzo di vacanze. Sarei dovuto partire anch’io
la sera del dodici di luglio ero da un amico, fuori città. Non un fratello, ma un buon amico.
Dovevamo sistemare la villa per le ferie dei genitori. Cogliemmo l’occasione per qualche bagno, unendo l’utile al dilettevole. Alla fine del primo giorno già avevamo finito quel poco lavoro che avevamo da fare. L’amico chiamò una sua amica. Lei venne con un’altra ragazza per me.
Mi svegliai che erano le undici, del tredici luglio.
Il telefono della villa squillava forte. Come le trombe del paradiso, il giorno dell’Apocalisse.
Risposi. Per rispondere dovetti alzarmi. Per alzarmi dovetti levarmi da dosso la ragazza, che forse si chiamava Giulia, forse Lisa.
Non erano buone notizie.
“Si, chi è?”
“Lei è il signor Mauro Grossi?”
“Si, sono io”
“Salve. Sono il commissario De Michele. Signor Grossi, dovrebbe rientrare subito in città. C’è qualche problema”
“Qualcosa di grave?”
“Preferirei parlarne di persona”
“Chi le ha detto che ero qui?”
“Sua madre”
Mi venne a prendere un auto in borghese. Gli agenti mi trattarono con tutti i riguardi.
Fecero anche finta di non vedere la cocaina e gli alcolici sul tavolino. Mi portarono i bagagli fuori, li caricarono in macchina. Si fermarono ad un autogrill e mi offrirono la colazione. Parlammo un po’ del caldo e dell’estate. Alla fine ripartimmo.
“Buon giorno signor Grossi, sono De Michele, abbiamo parlato per telefono sta mane.”
“Buon giorno commissario. Mi chiami Mauro, però.”
“Va bene Mauro. Quanti anni ha Mauro?”
“Ventidue.”
“Sembri più grande. Allora come è andata la breve vacanza? Tutto bene?”
“Si, fino a stamattina. Ma cosa è successo? Mi dica tutto?”
“Non abbia fretta. Quando sarà ne parleremo. Le chiedo un attimo di pazienza”
Il commissario andò via per un’ora.
Io lo aspettai nel suo ufficio. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. La testa era ancora intontita dalla coca e dall’alcool. L’unica cosa che sapevo, era che non ce l’avevano con me.
Col cazzo che sarei stato ancora seduto su quella sedia, se mi avevano arrestato.
Pensavo a tutto e a niente. Sempre più spesso mi ritornavano alla mente due bracciali d’argento, uniti da una catena.
Passata l’ora.
“Mauro?”
“Si?”
“Mi segua.”
“Senta posso chiamare a casa?”
“Magari dopo”
“Senta ora lei deve dirmi cosa cristo succede. È un’ora che aspetto!”
“Va bene. Mauro ieri sera suo padre ha avuto una crisi”
“Oh, cazzo! Cosa è successo?”
“Senta, mi stia a sentire, si sieda.”
“No, mi dica cosa è successo!”
“Si calmi.”
“Io non mi calmo fino a che non mi dici che ha combinato mio padre!”
“Ha preso una delle spade della vostra collezione e ha sterminato tutta la famiglia. Lei è l’unico rimasto in vita. Mi dispiace. Cerchi di farsi forza.”
Mio padre.
C’erano giorni in cui era un grand’uomo, e altri in cui si leccava la suola delle scarpe.
Giorni in cui faceva miliardi, e giorni in cui buttava all’aria la casa, maledicendo tutti noi perché, come sosteneva lui, gli portavamo i germi in casa. Diceva che un calabrone, lo avvertiva dei nostri complotti per ucciderlo e mangiarci i suoi soldi.
Che bel pezzo di pazzo che era! Tutte le allucinazioni, e i deliri al posto giusto.
Ma non era stato sempre così. Fino ai trentasei anni aveva portato avanti il business di famiglia, una fabbrica di tessuti, arrivando al mercato internazionale. Ci faceva vivere nell’oro. Aveva tirato dentro anche mio zio, che aveva abbandonato la medicina per i miliardi dei tessuti.
Rifornivano le griffe di moda di mezzo mondo.
D’improvviso mio padre impazzì.
Una mattina lo recuperammo dentro un bar in accappatoio e ciabatte che parlava del suo amico calabrone. Ci avevano avvertito i proprietari. Quando arrivammo io e mio zio non sapevamo cosa fare. Cercavamo di portarlo in auto, ma lui iniziò a colpirci con schiaffi e calci. Quella è stata l’unica volta che mio padre mi ha picchiato.
Da quel giorno fu pazzo.
Quando prendeva i farmaci e non era in un periodo no, riusciva a lavorare stava tranquillo. Ma ciclicamente ritornava la pazzia, e allora neanche i farmaci lo fermavano. Prendeva a calci le porte per non toccare le maniglie, si lavava le mani per ore, dava fuori di matto (passatemi l’espressione) quando mia madre cucinava senza i guanti di lattice. Urlava contro mia sorella e me, se quando rientravamo non ci facevamo la doccia (e per questo aveva fatto costruire un bagno in garage).
Alla fine, il dodici luglio di quest’anno, aveva deciso di chiudere tutti i contatti con la sanità mentale. Ed era arrivato alla conclusione che per farlo doveva morire portandosi dietro, nell’ordine:
mia madre, mia sorella, mio zio, mia zia, i miei cugini, mia nonna di anni ottantadue, e le tre cameriere.
Aveva attivato l’allarme che bloccava tutte le porte della villa dove vivevamo, aveva preso, dopo una scelta meticolosa, uno spadone a due mani, riproduzione fedelissima dell’originale cinquecentesco, custodito nella cassaforte della sua banca, e aveva deciso, probabilmente dietro suggerimento del calabrone, di dar vita ad una giostra medievale.
Che fantasia.
Ho deciso. Ucciderò quanti più calabroni posso, nella mia vita…
Oggi è il due di agosto.







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